Scorrendo il mio feed, ho avuto l’impressione che ultimamente nella bolla si stia tornando a parlare in maniera incalzante di fantastico in opposizione alla narrativa realista.
Sono in molti, da entrambe le parti e non da ieri, a vantarsi di praticare un tipo di letteratura acuta, posizionata, audace, dirompente – una letteratura che insomma lascia il segno. Questo vale per chi, dal lato del fantastico, se la prende con le storie borghesi, tacciandole appunto di essere “rassicuranti” e “da salotto”, chiuse nell’ecosistema annoiato delle vite delle persone normali che le credono degne di essere raccontate; come vale anche per gli snob della letteratura generalista che accusano il fantastico di escapismo o infantilismo, o semplicemente se ne distanziano per non entrare nel merito di certe sottoculture.
Ma al netto di tutto, a me pare che questa “guerra” che a volte sentiamo di dover portare avanti verso le narrazioni anestetizzanti sia in realtà solo la superficie della questione.
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Tanto per cominciare, che la narrativa di genere sia una grande lente di osservazione del reale e il luogo privilegiato della critica anti-establishment mi sembra un’affermazione che lascia il tempo che trova.
Certo, il suo carattere speculativo le consente di creare una una bolla in cui chi legge può riflettere su dinamiche e situazioni della sua realtà senza sentirne la pressione; ed è vero che alcune allegorie sono possibili solo nei territori del fantastico, laddove nella narrativa realista si sarebbe corso il rischio di una rappresentazione inefficace o banale.
Ma è anche vero che non tutta la letteratura borghese è autorenfenziale e autocompiaciuta, come alcuni paladini del fantastico vorrebbero farci credere. Anzi, forse oggi lo è moltissima letteratura di genere. E non parlo solo dei titoloni ridondanti dei romantasy che cercano di infilarsi quanti più trope possibili su per il qulo, o di quei fantasy à la Oscar Vault di cui traboccano gli scaffali delle librerie, e di cui si dice di solito che «l’ambientazione è davvero originale» o che «la costruzione del mondo e dei personaggi è fatta molto bene»1.
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Quello che è indubbio, invece, è che i narratori del fantastico abbiano un grande complesso di inferiorità verso i colleghi “da salotto”, i quali vendono di più, vincono più premi e sono in definitiva più popolari tra il pubblico mainstream. Per non parlare di quegli autori che rifiutano l’etichetta della narrativa fantastica per non essere associati ai nerd sudaticci che infestano le convention di genere2.
Siamo – mi ci metto pure io – molto protettivi verso il fantastico, odiamo quando qualcuno cerca di espropriarlo o ci si approccia senza una conoscenza capillare del canone. Ma allo stesso tempo siamo ansiosi di romperne i confini, di vederlo proiettato nel flusso della letteratura “alta”.
In questo processo ci chiediamo spesso: dov’è che sbagliamo? Scriviamo male o siamo troppo “sottili” per il vasto pubblico? Non sappiamo fare promozione o c’è un complotto dei grandi editori in atto contro di noi?
Per me stiamo guardando troppo in là. Quello che dovremmo fare, forse, è prenderci un minuto – si far per dire – di raccoglimento e cominciare a ripensare il nostro rapporto con la letteratura di genere (e in generale).
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Ho l’impressione che esista una fetta (anche abbastanza ampia) di “addetti ai lavori” del fantastico che legge (quasi) esclusivamente narrativa di genere, o che comunque sceglie i suoi modelli e le sue ispirazioni solo o principalmente in quegli ambiti.
A livello teorico, tutto ciò avrebbe dovuto favorire uno sviluppo coerente e consapevole del canone, marginalizzando chi scrive senza cognizione di causa – o più di quanto legge! Ma a me pare che alla lunga questa consuetudine abbia assunto i tratti del dogma, e alla fine abbia: da un lato tenuto lontani potenziali lettori/scrittori neofiti e suscitato sentimenti di insofferenza verso la tradizione anche in chi partiva con buone intenzioni3; dall’altro generato un paesaggio letterario infruttuoso, ripetitivo, a tratti onanistico – geneticamente debole, insomma.
Se non mi sono calato qualcosa, se effettivamente le mie sensazioni sono condivise anche da chi mi legge, allora forse sarebbe il caso di riprogrammare questo sistema.
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Il nostro approccio al testo letterario, anche se non ce ne rendiamo conto, è viziato dal modo in cui parliamo di libri, e per molti di noi la lettura è un hobby socializzato perlopiù online. Il web ci ha abituato a spazi virtualmente infiniti e tempi sempre più ridotti. Nel contesto dei social, le esperienze vengono modellate per esistere in forme riconoscibili, immediate, reiterabili, vendibili, ben poco idiosincratiche.
Nel caso della lettura, è molto facile per noi tematizzare i contenuti di un’opera: elementi come l’ambientazione, la trama, i personaggi, i trope, i motivi, lo stile, etc. sono gli aspetti dei libri che più di frequente diventano argomenti del discorso sulla narrativa. Sono quelli più “esterni”, isolabili e intersoggettivi: quelli, cioè, di cui possiamo parlare con la ragionevole pretesa di essere compresi.
Al contrario, riuscire a parlare della nostra esperienza personale di un libro è un’operazione assai meno scontata. Una medesima opera, infatti, potrebbe generare una varietà di significati diversi pari al numero di lettori, e quindi, invece che criterio di aggregazione e comunione fatica, essa diventerebbe motivo di confronto anche irrisolvibile4.
Mi ricordo quando, durante la lettura di Intervista col vampiro, ho frainteso un passaggio del testo per alcuni secondi. Louis si è appena ricongiunto (suo malgrado) con Lestat, e racconta: «'Mi sei servito solo finché mio padre era vivo' mi sibilò, cercando disperatamente di trovare un'apertura da qualche parte». In quel momento ho pensato che il senso della frase fosse che Lestat volesse aprirsi una strada nella mente di Louis, e che avesse usato quella frase per ferirlo emotivamente. Poi, continuando a leggere, ho capito che Anne Rice si riferiva a una via di uscita da un luogo fisico. Tuttavia, quell’errore fa parte della mia esperienza personale del testo, e a distanza di mesi è una delle cose che ricordo di più del libro.
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La distinzione tra i contenuti dell’opera e i suoi significati personali diventa particolarmente rilevante se parliamo di narrativa di genere.
Distinguiamo il fantasy in quello con o senza draghi, in #enemies-to-lovers e #lovers-to-enemies, young adult e new adult, dark e cozy, grimdark e solo dark, epico e mondano. Propiniamo consigli di lettura sul modello “se ti è piaciuto X, devi leggere Y”, perché in entrambi ci sono gli elfi, o entrambi sono ambientati sott’acqua, o in entrambi c’è un personaggio che non è chi dice di essere.
Prendiamo il caso di Wicked. Ripubblicato qualche anno fa da Oscar Vault per cavalcare l’hype del film, il romanzo di Maguire è davvero «acuto, posizionato, audace, dirompente». Peccato che sia stato pubblicizzato come il retelling di un classico in cui la strega cattiva diventa la protagonista e frequenta l’università insieme alla strega buona, con la quale intrattiene una relazione vagamente saffica – e poi chiaramente #friends-to-enemies e tutte quelle robe lì. Con queste premesse già si potevano vedere orde di booktokers strapparsi i capelli e battersi il petto per avere una copia gratis da Mondadori, le stesse che (non a caso) l’hanno trovato deludente – forse perché non somiglia all’ennesimo Corte di Cortili e Cortesi in cui c’è una guerra tra elfi e vampiri che automaticamente lo rende un romanzo dalle tinte politiche?
Abbiamo smesso di capire cosa ci trasmettono le storie, perché torniamo col pensiero su alcuni libri piuttosto che su altri. Cerchiamo invece di accumulare titoli per poter dire che ne abbiamo letti tanti, abbiamo letto tutti quelli di quel sotto-sotto-genere. Lo facciamo per darci un tono e sembrare degli esperti, in modo da poter aggiungere una qualche onorificenza autoassegnata alle nostre bio.
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La discussione dei significati in una forma compiuta richiede un’alfabetizzazione emotiva più sofisticata, la maturità intellettuale di presentare un’opinione parziale, il coraggio di esporsi in una condizione vulnerabile, la fortuna di trovare un contesto che autorizzi tutte le precedenti.
Praticamente si tratta di fare una seduta di terapia con il libro che stiamo leggendo. Ma se la facessimo davvero, forse scopriremmo perché questo libro ci è piaciuto o, se avrebbe dovuto piacerci, perché non è successo. Potremmo pensare di rifunzionalizzare il modo in cui ci approcciamo alla letteratura, scovare nuove e inaspettate connessioni. E magari, prima di scrivere il nuovo capolavoro high fantasy, non dovremmo leggere Tolkien, ma un romanzo borghese degli anni ‘80.
A parte le provocazioni, praticare un’ermeneutica letteraria con queste caratteristiche potrebbe davvero avere l’effetto di generare contaminazioni letterarie più originali, interessanti e produttive. Alla fine si potrebbe riuscire persino a capire se davvero non sappiamo più scrivere o se l’algoritmo ci sta solo intossicando con l’ennesima reskin di un libro che abbiamo già letto. Anche perché, per ora, le alternative proposte sono solo altri corsi di scrittura.
Questo è per dirvi che non vi perdonerò mai per aver fatto floppare Tanith Lee in favore di certi artigiani della scrittura (ogni riferimento a Brandon Sanderson è puramente casuale)
Ricordo la reazione non proprio pacata di Michele Monteleone quando lesse che Margaret Atwood aveva detto che Il racconto dell’ancella non era un’opera di fantascienza
Sì, signor vecchio brontolone che mi accusasti di non poter parlare di letteratura di genere perché non avevo letto Dick, sto parlando ancora di te!
Questo fenomeno in realtà non è nativo né esclusivo di internet. La società a livello strutturale incoraggia la condivisione dei referenti a discapito di quella dei significati. La rete ha però sicuramente amplificato il “problema” – basti pensare alle echo chambers, gli ambienti online che l’algoritmo confeziona per noi, affinché le nostre idee preesistenti possano trovare solo conferme.
Condivido molti punti dell'analisi e la constatazione - palese - che il genere sia in crisi (d'altronde quando non lo è stato?), nonostante questo non sono d'accordo della soluzione.
Ma forse è un parlare fine a se stesso. La dipendenza dai tropi e dai retelling, così come la diffidenza per tutto ciò che non sia facilmente incasellabile in una definizione di marketing precisa, sono allo stesso tempo sintomi e cause. Spingendo l'ultimo successo del booktok, necessariamente il mercato apre la strada a chi vorrà imitarlo.
La cosa che mi chiedo è se sia davvero possibile cambiare la corrente, e se si come. Da fuori? E senza essere percepiti come moralizzatori? Mettendosi di lato, o ancora, da dentro?
Onestamente non saprei, ho il timore fondato che non ci si possa far nulla, ma che serva comunque mettersi dentro e combattere la corrente.
Insomma, dobbiamo immaginare che Sisifo sia felice